Buone notizie dalle recenti pronunce giurisprudenziali per le società che affittando a terzi aziende o immobili si trovano a fare i conti con lo status di comodo e le sue conseguenze fiscali negative.
Nel contesto delle locazioni di aziende o immobili a terzi è molto probabile che scatti la declaratoria dello status di comodo: il locatore mantiene la proprietà degli assets che, essendo iscritti nell’attivo patrimoniale, vengono moltiplicati per i coefficienti disposti dall’articolo 30 della legge 724/1994, ovvero 6% per gli immobili e 15% per le altre immobilizzazioni, determinando così i ricavi presunti, generalmente ben più alti del semplice canone di locazione.
Lo scenario è reso ancor più negativo dal fatto che l’unica clausola di esclusione applicabile, congruità e coerenza con gli studi di settore, non è utilizzabile in quanto la società che affitta l’unica azienda non applica gli studi di settore.
Occorre quindi valutare quali argomentazioni possano essere prodotte o nell’interpello probatorio ex articolo 11 della Legge 212/2000 o più probabilmente nel contenzioso che seguirà l’avviso di accertamento emesso dall’ufficio delle Entrate.
L’argomento principale dovrebbe basarsi sul fatto che, avendo affittato l’azienda a terzi, non si può certamente ricadere nella situazione elusiva che caratterizza la definizione della società di comodo quale schermo societario fittizio che cela un reale utilizzo dei beni da parte dei soci.
Gli uffici delle Entrate spesso contestano anche la pattuizione di canoni locazione inferiori a supposti parametri di mercato, come se potesse evincersi in modo oggettivo un parametro di mercato per la locazione d’azienda.
Un parametro di mercato non può essere dedotto dagli studi di settore anche quando siano applicabili, come emerge dalla sentenza delle Commissione tributaria regionale della Lombardia 2909 del 16 maggio 2016. Occorre semmai valutare se vi è una remunerazione adeguata del capitale investito, adatta nel senso che è in linea con i tassi applicabili ad investimenti monetari, come è stato dimostrato nel ricorso che ha convinto la Commissione tributaria regionale della Lombardia nelle sentenza qui citata.
Peraltro un’indicazione su un corretto canone di mercato arriva anche dal documento emanato nel mese di marzo dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti, in materia di congruo canone di affitto nelle procedure concorsuali, dove il valore dell’azienda è moltiplicato per un tasso di remunerazione desunto dal costo del denaro. Ma anche questa metodologia certamente più razionale dell’articolo 30 della legge 724/1994 non può tenere conto delle singole situazioni: ad esempio si può decidere di accettare un canone sensibilmente inferiore a qualunque remunerazione del capitale investito pur di minimizzare le perdite che, in caso contrario, deriverebbero dalla gestione diretta e in questa direzione si è recentemente pronunciata la Commissione tributaria regionale della Toscana, sentenza 800/5/16 del 4 maggio 2016.