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Il massiccio ricorso allo smart working a seguito del lockdown pone, da un punto di vista professionale, il problema del trattamento fiscale dei buoni pasto ai dipendenti, solitamente attribuiti in ragion del fatto che il lavoratore è obbligato a consumare il pasto fuori casa.

In riferimento alla spettanza dal punto di vista contrattuale, occorre fare riferimento agli accordi collettivi e individuali, e non possibile formulare una regola di carattere generale circa l’obbligo dei datori di lavoro di riconoscerli durante il periodo di smart working. In linea di principio, in assenza di diversa previsione contrattuale, il lavoratore dovrebbe continuare a ricevere tale benefit.

Per buono pasto, secondo quanto indicato ai sensi dell’art. 2 comma 1 lett. c) del DM 7 giugno 2017, si intende il documento di legittimazione, anche elettronico, che attribuisce al titolare, ai sensi dell’art. 2002 c.c. il diritto a ottenere il servizio sostitutivo di mensa (somministrazione di alimenti e bevande e le cessioni di prodotti alimentari pronti per il consumo) per un importo pari al valore del buono. I buoni pasto sono utilizzati dai prestatori di lavoro subordinato, a tempo pieno o parziale, anche nel caso in cui l’orario di lavoro non preveda una pausa per il pasto.

Per quanto riguarda l’imposizione diretta, ai sensi dell’art. 51, comma 1 del TUIR, “il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro. Tuttavia, il comma 2 del medesimo articolo dispone che non concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente “le prestazioni sostitutive delle somministrazioni di vitto fino all’importo complessivo giornaliero di euro 4, aumentato a euro 8 nel caso in cui le stesse siano rese in forma elettronica”.

Quest’ultima previsione normativa costituisce dunque una deroga al principio di onnicomprensività, ispirata dalla volontà del legislatore di detassare le erogazioni ai dipendenti che si ricollegano alla necessità del datore di lavoro di provvedere alle esigenze alimentari del personale che durante l’orario di lavoro deve consumare il pasto. Il buono pasto, rientrando tra le prestazioni sostitutive del servizio mensa, è escluso dalla formazione del reddito di lavoro dipendente, nei limiti sopra citati.

Sulla base di quanto esposto, per i buoni pasto concessi ai dipendenti che lavorano da casa si pone il dubbio se gli stessi possano beneficiare dei limiti previsti dal sopra indicato articolo, in quanto non si realizzerebbe la finalità di favorire i dipendenti che, costretti a fruire del pasto durante la giornata lavorativa, non usufruiscono del servizio mensa.

Con riferimento alla precedente previsione normativa (DPCM 18 novembre 2005) l’Agenzia delle Entrate aveva evidenziato che il legislatore aveva tenuto conto della sempre maggiore flessibilità lavorativa e aveva ritenuto che, in assenza di una regolamentazione tributaria sul punto, si dovesse fare riferimento alle norme che regolano l’affidamento e la gestione dei servizi sostitutivi di mensa, recate dal citato DM.

Sulla base di tali considerazioni, superando l’orientamento tradizionale in materia, l’Agenzia delle Entrate aveva concluso che i lavoratori a tempo parziale, il cui orario di lavoro non prevedeva il diritto alla pausa pranzo, avevano diritto all’esclusione dei buoni pasto dal reddito complessivo.

Il medesimo ragionamento pare applicabile nel caso dello smart working: posto che nel DM 7 giugno 2017 non risultano limitazioni in ordine all’attribuzione dei buoni pasto con specifico riferimento a tale modalità di svolgimento del lavoro, è ragionevole ritenere che anche nel caso in esame operi l’esclusione dal reddito di lavoro dipendente (nei limiti previsti dal TUIR).