Con la sentenza 8949/5/15, la Commissione provinciale di Messina ha accolto il ricorso di un contribuente, al quale l’Agenzia delle Entrate aveva chiesto imposte, sanzioni e contributi Inps per 55.275 euro, in virtù di un accertamento basato unicamente su uno studio di settore. I giudici applicando i principi consolidati della Cassazione hanno dato ragione al contribuente e hanno condannato l’ufficio anche al pagamento delle spese.
Nel caso in esame, l’Agenzia delle Entrate invece di porre in essere un giusto contradditorio, lo ha simulato, non considerando in alcun modo le osservazioni e la documentazione esibita dal contribuente, a seguito dell’invito al contradditorio. Peraltro, l’ufficio nell’atto di accertamento ha confermato integralmente i risultati dello studio di settore.
L’errore dell’ufficio risiede dunque nell’applicazione automatizzata dello studio di settore per l’accertamento. In base a quanto sostenuto dal direttore dell’Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, il 6 novembre 2014, in un audizione in commissione Finanze alla Camera, gli studi di settore dovrebbero essere usati per “accompagnare” i contribuenti alla cosiddetta compliance, cioè all’adesione spontanea. Inoltre, “studi di settore profondamente rinnovati possono rappresentare un efficace strumento per indicare preventivamente il potenziale risultato, anche fiscale, che deriva dall’impiego dei fattori produttivi”. Così “si esalta la capacità di utilizzo dello strumento quale ausilio alla selezione dei contribuenti da sottoporre a controllo”. I risultati degli studi di settore, perfezionati e migliorati, dovranno quindi d’ora in poi servire solo per la selezione dei contribuenti da controllare e non per mettere in atto un accertamento automatizzato.