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I rapporti tra il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali e la dichiarazione di fallimento del soggetto alle stesse obbligato è il tema trattato dalla Cassazione con la sentenza n. 19574 depositata in data 13 maggio 2014.

Nel caso di specie, il titolare di una ditta individuale aveva omesso il versamento delle ritenute relative ai propri dipendenti per un arco di tempo di circa due anni nell’ambito del quale era intervenuta la dichiarazione di fallimento personale dell’imprenditore.

È bene ricordare che l’art. 2 comma 1-bis L. 638/1983 prevede che l’omesso versamento di tali ritenute “è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a lire due milioni. Il datore di lavoro non è punibile se provvede al versamento entro il termine di tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione”.

Con il ricorso, l’imprenditore aveva addotto, tra l’altro, ad esclusione della propria penale responsabilità, l’intervenuta dichiarazione di fallimento personale che, in caso di pagamento delle ritenute, avrebbe – a suo dire – comportato ipotesi di bancarotta preferenziale.

La Cassazione è stata chiamata, pertanto, a decidere la questione della rilevanza penale dell’omesso pagamento delle ritenute dovute dopo la dichiarazione di fallimento ma riguardanti periodi antecedenti il fallimento stesso.

La prima considerazione della Corte – in linea con la sua costante giurisprudenza formatasi anche nell’analoga materia di ritenute fiscali alla fonte – è che una situazione di difficoltà finanziaria, pur grave, non può escludere la punibilità per il reato in esame, posto che tale illecito si caratterizza, sotto il profilo soggettivo, per il dolo, generico, di omettere consapevolmente i dovuti versamenti. Di qui, l’irrilevanza delle situazioni di criticità patrimoniale e delle opzioni a favore di debiti ritenuti più urgenti.

Non muta l’orientamento di legittimità se non di difficoltà si tratti, ma di vera e propria insolvenza. In questo caso, infatti, la punibilità dell’omissione trova eguale ragione nell’onere del datore di lavoro – nella sua funzione di sostituto dell’obbligato – di ripartire le risorse esistenti all’atto del pagamento delle retribuzioni ai dipendenti in considerazione, anche, dell’obbligo di versamento delle relative ritenute, anche se con incidenza sull’integrale pagamento delle retribuzioni stesse.

Ne deriva che il sopravvenuto fallimento dell’agente non può scriminare il mancato accantonamento delle necessarie risorse.

Tuttavia, il datore di lavoro fallito, e a maggior ragione l’imprenditore non fallito personalmente (cfr. Cass. n. 29616/2011), può comunque richiedere l’adempimento al curatore o al giudice delegato – anche con mezzi propri dell’imprenditore – all’esclusivo fine di potere questi beneficiare della citata condizione di non punibilità di cui all’ultima parte dell’art. 2 comma 1-bis L. 638/1983.

La Corte ha anche richiamato altri principi di interesse per la fattispecie in esame.

La prova degli omessi versamenti rispetto all’effettiva retribuzione dei dipendenti può essere ricavata, in linea con la costante giurisprudenza di legittimità, nei modelli DM10, ai quali, per la diretta provenienza dal datore di lavoro, viene attribuita una particolare funzione ricognitiva della situazione debitoria dell’ente, attestante la corresponsione di retribuzioni non accompagnate dal versamento degli obbligatori contributi.

Ne consegue che è onere del soggetto obbligato, a fronte di tale prova di accusa, dimostrare un diverso contesto di fatto, anche relativo ad una mancata corresponsione della retribuzione per effettiva e irrimediabile impossibilità.

Inoltre, la Corte ha ribadito che il momento in cui i consuma il reato non coincide con lo scadere del termine, previsto dalla norma, di tre mesi dalla contestazione del mancato versamento, bensì, per consolidato orientamento, con la scadenza del termine per il pagamento, vale a dire il giorno sedici del mese successivo a quello in cui è stata corrisposta la retribuzione.