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Nell’ambito delle operazioni intracomunitarie, l’obbligo di comunicare il numero di identificazione dell’acquirente non risulta sufficiente a garantire la qualificazione dell’operazione come intracomunitaria, legittimando in tal modo il diritto alla detassazione per il cedente. Il venditore può dimostrare che ha operato in buona fede a condizione che effettui una costante verifica della validità dei dati ricevuti a prescindere dalla continuità dei rapporti commerciali tra le parti. La giurisprudenza nutre un rilevante interesse con riguardo alla diligenza richiesta al soggetto passivo nazionale, in quanto si vuole chiarire il rapporto tra “status” e identificazione del soggetto passivo provocato dall’incerto inquadramento dell’adempimento come formale o sostanziale.

L’oggetto del contenzioso instaurato tra una società italiana e l’Agenzia delle Dogane è costituito da alcune cessioni intracomunitarie con destinatari una società spagnola e una società austriaca; tali operazioni vengono registrate, ai fini Iva, come operazioni non imponibili, ai sensi degli articoli 41 e 50 del D.L. n. 331/1993. La società italiana, nella compilazione delle fatture e degli elenchi riepilogativi Intrastat, aveva indicato i numeri di identificazione degli acquirenti comunitari.

L’Agenzia delle Dogane effettua dei controlli in merito, dai quali emerge che i numeri di identificazione Iva dei soggetti comunitari acquirenti erano stati cancellati, a cura delle rispettive Autorità nazionali, circa sei mesi prima che venissero effettuate le operazioni. Da quanto emerso a seguito della verifica, i soggetti comunitari non potevano essere qualificati come soggetti passivi Iva e quindi l’Agenzia delle Dogane ha proceduto a considerare le operazioni come nazionali e non più come “non imponibili”. La conseguenza è stata la ripresa a tassazione delle operazioni poste in essere, con applicazione delle relative sanzioni.

Il contenzioso instaurato, a seguito dei vari giudizi, è stato sottoposto alla Corte di Cassazione, mediante ricorso proposto dall’Agenzia delle Dogane. In particolar modo, l’Agenzia sosteneva che non sussistesse nel caso concreto la buona fede della società italiana nell’ipotesi di inadempimento degli obblighi di controllo preventivo incombenti sull’acquirente. La società italiana, nella sua difesa, ha argomentato che non era stato instaurato alcun contraddittorio in sede di verifica fiscale. La società italiana contestava anche il diniego all’esenzione in quanto fondato su un elemento formale, quale la chiusura della partita Iva degli acquirenti comunitari, senza porre rilievo agli altri elementi sostanziali necessari per la qualificazione delle operazioni come non imponibili, quali l’effettiva realizzazione dell’operazione di vendita, l’effettivo trasporto della merce ed il pagamento della stessa.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5632 del 2015, ha respinto la questione inerente alla mancata instaurazione del contraddittorio durante la verifica fiscale, ha confermato l’applicazione delle sanzioni e non ha riconosciuto la buona fede come esimente.

La Corte di Cassazione, con la sentenza 5632, si è concentrata anche sul rapporto tra status di soggetto passivo e identificazione.

Una prima critica muove verso la statuizione che l’identificazione costituisce la prova dello status di soggetto passivo. In primo luogo perché, se così fosse, verrebbe implicitamente affermata la coincidenza tra soggettività passiva ed identificazione, nonostante il numero individuale non rappresenti un elemento costitutivo dello status, come conferma il fatto che esso possa essere attribuito d’Ufficio successivamente all’inizio dell’attività economica. Ne consegue che il numero individuale andrebbe considerato come un elemento di prova assieme all’accertamento di altri elementi soggettivi.

Il secondo luogo, il valore che può attribuito alla partita Iva può dipendere dal soggetto che ne prende conoscenza. In altri termini, solamente per gli altri soggetti passivi può essere considerata la prova dello status non avendo a disposizione i poteri di accertamento di cui è dotata l’Amministrazione finanziaria.

Con riguardo all’affermazione che l’identificazione costituisce un elemento di prova delle operazioni effettuate, occorre porre attenzione al fatto che, in quanto tale, esso partecipa con altri elementi alla determinazione del regime Iva applicabile. Quindi, il mancato riconoscimento della detrazione, esenzione o rimborso non può dipendere solo ed esclusivamente dall’assenza della partita Iva, o dai vizi che la riguardano, dovendo essere possibile dimostrare la legittimità e correttezza delle operazioni in modo alternativo.

L’articolo 41 del D.L. n. 331/1993 detta le condizioni per qualificare un’operazione come intracomunitaria (il trasporto del bene in un altro Stato membro a favore di un soggetto passivo d’imposta o ente o associazione).

L’articolo 138 della Direttiva n. 2006/112/CE consente che gli elementi essenziali della cessione intracomunitaria siano:

  • il trasporto del bene all’estero;
  • il cliente sia un soggetto passivo, oppure, ammette che possa essere anche un soggetto non passivo ma che agisce in quanto tale.

L’articolo 50 del D.L. n. 331/1993, al comma 1, stabilisce che per beneficiare dell’esenzione Iva relativa a tale categoria di operazioni risulta obbligatorio comunicare il numero di identificazione dell’acquirente, mentre al comma 2 prevede la possibilità di richiedere la verifica di tale numero all’Amministrazione Finanziaria.

Dal contenuto della sentenza della Corte di Cassazione si può trarre la conclusione che l’operatore economico non può ricorrere né alla norme, né alla prassi per individuare quali elementi possa utilizzare al fine di provare la diligenza adottata nella raccolta delle informazioni inerenti alla controparte. Il caso trattato dalla Corte di Cassazione si è concentrato sul numero di identificazione del soggetto passivo, per il quali ci si deve avvalere del controllo preventivo dell’Ufficio.