Con la sentenza 8.5.2019 n. 19672, la Cassazione penale ha affermato che l’apposizione di un visto di conformità mendace da parte di un professionista può integrare il reato di dichiarazione fraudolenta di cui all’art. 3 del DLgs. 74/2000, trattandosi di un “mezzo fraudolento” idoneo a ostacolare l’accertamento e a indurre in errore l’Amministrazione finanziaria, indicando in una delle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi o all’IVA elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi.
I giudici hanno, inoltre, chiarito che, ai fini della responsabilità penale, non rileva la distinzione tra “visto leggero” (previsto e disciplinato dall’art. 35 del DLgs. 241/97) e “visto pesante” (o certificazione tributaria, prevista dall’art. 36 dello stesso decreto).
Nel caso affrontato dalla sentenza, ad un professionista era stato contestato (con conseguente provvedimento di sequestro) il delitto di cui al suddetto art. 3 del DLgs. 74/2000 per aver apposto un visto di conformità nell’ambito di un’associazione per delinquere che operava tramite la ricerca di imprese in decozione, il reclutamento di un prestanome e la costruzione con espedienti e artifici di una contabilità nella quale figurano ingenti crediti di imposta derivanti da operazioni fittizie.
Pur trattandosi di un “visto leggero”, la Cassazione precisa che il professionista è tenuto a riscontrare la corrispondenza dei dati esposti nella dichiarazione con le risultanze della relativa documentazione e la conformità alle disposizioni che disciplinano gli oneri deducibili e detraibili, le detrazioni e i crediti di imposta, nonché lo scomputo delle ritenute d’acconto.
Una condotta che violi tali obblighi può, dunque, assumere rilevanza penale, salva la pro-va del dolo che deve necessariamente accompagnare l’apposizione del visto mendace.
Va ricordato che l’infedele rilascio del visto di conformità, in relazione alle dichiarazioni fiscali diverse dai modelli 730, è punito con la sanzione amministrativa da 258,00 a 2.582,00 euro, secondo quanto previsto dall’art. 39 co. 1 lett. a) del DLgs. 241/97 (di recente modificato dall’art. 7-bis del DL 4/2019, conv. L. 26/2019): i giudici della Cassazione si interrogano, pertanto, sul possibile cumulo delle sanzioni.
In realtà, la sentenza in commento pare porsi unicamente la questione di un possibile rapporto di specialità ai sensi dell’art. 15 c.p., escludendone l’applicabilità al caso in questione.
Può essere, però, utile notare che l’art. 39 del DLgs. 241/97 prevede una clausola di sussidiarietà (“salvo che il fatto costituisca reato”), elemento che porterebbe ad optare per la soluzione per cui, ogniqualvolta il fatto descritto nella norma tributaria in questione assurga ad illecito penalmente rilevante, si dovrebbero applicare unicamente le norme penali.