L’annullamento, da parte delle autorità doganali estere, di certificati di origine inesatti o falsificati è sufficiente a giustificare il recupero di dazi preferenziali non versati, indipendentemente dai motivi della loro invalidazione.
La Corte di Cassazione si è così espressa con la sentenza 25 gennaio 2019 n. 2148, riguardante un controllo, intervenuto a seguito di una procedura internazionale di cooperazione amministrativa, dal quale è risultata la nullità dei certificati EUR 1, con la conseguenza che le merci importate, non potendosi più considerare originarie del Paese terzo, non potevano usufruire del trattamento daziario agevolato. Al fine di poter beneficiare delle esenzioni o riduzioni dei diritti doganali previste dalle regole di origine preferenziale, oltre ai presupposti sostanziali e alle clausole antiabuso, è necessaria la produzione di un documento, idoneo a dimostrare che la merce integra le condizioni per essere considerata di origine preferenziale. Tale attestazione, prevista dalla maggior parte degli accordi preferenziali di libero scambio, bilaterali e multilaterali, è il certificato di circolazione EUR 1, rilasciato dalle amministrazioni estere su domanda scritta dell’esportatore, il quale si impregna, su eventuale richiesta delle autorità, a presentare la documentazione giustificativa necessaria ad accertare il carattere originario dei prodotti.
L’EUR 1 (Form A) costituisce, pertanto, titolo di legittimazione esclusivo per fruire delle agevolazioni daziarie ma non ha efficacia di prova legale assoluta dell’effettiva origine della merce importata. Da un lato per l’assenza di obblighi di controllo in capo al Paese terzo, dall’altro per la possibilità per lo Stato importatore, per ragionevoli dubbi, di contestare l’origine del bene importato e rifiutare, a prescindere dalla regolarità formale del certificato, l’applicazione dello specifico regime doganale.
Di conseguenza, l’invalidazione dei certificati di origine da parte del Paese terzo di esportazione determina il venire meno del beneficio previsto in relazione all’origine del prodotto e la successiva ripresa a tassazione dei maggiori diritti in capo all’importatore nazionale. In particolare la Corte di Cassazione con la sentenza in commento, ha statuito che “ai fini della motivazione dell’avviso di rettifica, è sufficiente che l’amministrazione finanziaria dia conto della invalidazione, da parte dell’autorità emittente, di detto certificato, essendo superflua l’indicazione delle ragioni che hanno condotto alla menzionata invalidazione”.
Secondo la recente giurisprudenza, in presenza di documenti manifestamente falsi, l’operatore economico non potrebbe invocare il legittimo affidamento per opporsi a una contabilizzazione a posteriori dei dazi all’importazione, in mancanza del c.d. “errore attivo” della Dogana, che non può consistere nella mera ricezione delle dichiarazioni inesatte dell’esportatore (Cass. n. 1788/2019). Tale comportamento attivo, secondo la casistica della giurisprudenza unionale, sarebbe limitato a un’errata interpretazione delle norme in materia di origine o a un’errata classificazione doganale, risultante dal raffronto tra la voce dichiarata e la designazione delle merci secondo la nomenclatura combinata. In assenza di tali circostanze, pertanto, il rischio derivante da un certificato di origine che si rivela inesatto o falso in occasione di un controllo successivo ricadrebbe sull’operatore, non essendo l’Unione europea tenuta a sopportare le conseguenze pregiudizievoli dei comportamenti scorretti dei fornitori esteri degli importatori.