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Con la sentenza n. 2961/1/2017, la Commissione tributaria provinciale di Milano stabilisce che le risultanze degli studi di settore possono dare prova della congruità delle transazioni intercompany.

La Commissione tributaria provinciale di Milano, con la sentenza n. 2961/1/2017, depositata lo scorso 18 aprile, si è espressa sulla controversia sorta in materia di prezzi di trasferimento per gli anni 2012 e 2013, tra l’Agenzia delle Entrate e una S.r.l. italiana che operava come commissionaria per la vendita di prodotti abrasivi per conto di una committente consociata di diritto austriaco. La contribuente non aveva predisposto la documentazione prevista dalla normativa sul transfer pricing, pertanto l’ufficio aveva svolto un’analisi autonoma al fine di accertare la congruità delle commissioni intercompany con il principio del valore normale (articolo 9 e 110 del Tuir). L’Agenzia delle Entrate sulla base degli esiti dell’analisi condotta contestava alla società italiana l’applicazione di commissioni alla propria consociata estera inferiori rispetto al valore di mercato.

La società istante si rivolgeva al Tribunale eccependo la non adeguata comparabilità dei soggetti comparabili selezionati (“peers”), che avevano attività e profilo funzionale diverso dalla società in oggetto. In particolare, la società oggetto di accertamento non aveva rischio di magazzino e di credito a differenza dei distributori individuati dall’Ufficio. La società risultava inoltre, congrua agli studi di settore e aveva chiuso il 2013 in perdita, a causa della crisi del settore, che ha determinato una riduzione dei ricavi a fronte della quale i costi non si erano ridotti in misura corrispondente in quanto fissi.

I giudici davano ragione alla contribuente soffermandosi con particolare attenzione sull’inesistenza di rischi da magazzino e considerando la distinzione tra la figura di distributore e di agente, affermata anche dalle Linee guida OCSE in tema di transfer pricing.

Gli stessi giudici, infine, sottolineavano come l’Agenzia delle Entrate avesse completamente disatteso la validità degli studi di settore le cui risultanze “davano ampia conferma della congruità dei ricavi realizzati dalla ricorrente rispetto al cluster di riferimento” per fondare i propri calcoli sulla metodologia dei prezzi di trasferimento.

La Commissione giungeva dunque alla conclusione in base alla quale “per l’attività di commissionario, così come delineato, non trova spazio la teoria del transfer pricing, mentre ha valenza lo studio di settore relativo alla specifica attività svolta”.