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Con due recenti sentenze, la Ctp di Milano fornisce il suo orientamento su alcune situazioni che potrebbero emergere dall’applicazione della normativa sui prezzi di trasferimento.

La Commissione Tributaria Provinciale di Milano con le sentenze n.7499/15/2016 e 8301/1/2016 ha fornito il proprio orientamento su alcune fattispecie che potrebbero emergere dall’applicazione della normativa in materia di Transfer Pricing.

In riferimento alla prima sentenza, i giudici milanesi chiamati ad esprimersi sul caso di un’azienda, operante nel settore della moda, che aveva applicato sconti crescenti alla propria consociata con sede ad Hong Kong hanno dato ragione alla contribuente. Per i giudici il contribuente aveva correttamente dimostrato di aver applicato alla propria consociata estera sconti commerciali in linea con quelli praticati a clienti terzi con i quali l’azienda aveva effettuato transazioni con volumi comparabili. In particolare, la società aveva praticato nel 2011 una politica di sconti crescenti in relazione alle quantità vendute per le transazioni di ammontare considerevole e per i clienti ritenuti “rilevanti”; tra questi vi rientrava anche la consociata asiatica in base al cospicuo volume di acquisti effettuato durante l’anno.

L’impresa pertanto nell’applicare il metodo del confronto di prezzo (CUP) ai fini della corretta determinazione dei prezzi di trasferimento, aveva confrontato i prezzi praticati alla consociata asiatica con quelli applicati a clienti terzi di uguali dimensioni, prendendo a riferimento la media delle transazioni realizzate sui vari prodotti (tra loro omogenei) e non i singoli articoli, che invece avrebbero potuto essere soggetti a peculiarità.

Nel secondo caso (sentenza della Ctp di Milano n. 8301/1/2016), la controversia era nata da una rettifica dei prezzi di trasferimento operata dall’ufficio in riferimento a costi di acquisto di merci sostenuti da una società italiana, nel 2010, nei confronti della consociata estera. La pretesa dell’Agenzia delle Entrate era fondata su una selezione di soggetti comparabili (benchmark), da cui l’ufficio individuava un intervallo di valori di redditività da comparare con il risultato economico conseguito dalla società italiana. Dato che la redditività era inferiore rispetto al valore mediano del benchmark, l’Amministrazione Finanziaria contestava l’indeducibilità di parte dei costi di acquisto per violazione del principio del valore normale.

I giudici dando ragione al contribuente, rigettavano la contestazione dell’ufficio affermando che per definire il corretto posizionamento all’interno di un range di valori è necessario considerare il ruolo, le funzioni e i rischi assunti dalla società. Nel caso di specie, l’ufficio avrebbe dovuto optare per un posizionamento più basso rispetto al valore mediano, considerando la limitata complessità della società.

Si ricorda infine che in passato la giurisprudenza si era già espressa in merito al corretto posizionamento del risultato economico di una società italiana all’interno di un intervallo di valori comparabili, sostenendo che: “tutti i valori di un intervallo sono idonei a rappresentare i vantaggi di libero mercato” (Ctr Lombardia 1670/50/2015) e una normativa che imponesse al contribuente di uniformarsi ad un unico punto di riferimento, vincolerebbe il contribuente a “centrare una media che ovviamente essendo un dato statistico varia continuamente” (Ctp di Milano 4073/9/2016).