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Con la sentenza 35623/2016 della Cassazione, depositata il 29 agosto, la Suprema Corte stabilisce che per incriminare il soggetto emittente fatture false non va provata la consapevolezza della frode.

Per incriminare il soggetto che emette fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, l’accusa non deve dimostrare la consapevolezza del meccanismo fraudolento finalizzato a permettere l’altrui evasione, a patto che sia certa l’oggettiva inesistenza della prestazione. Ad affermarlo, è la Cassazione con la sentenza n 35623, depositata il 29 agosto.

Il caso oggetto della sentenza della Suprema Corte riguarda un imprenditore edile indagato per aver emesso fatture su operazioni oggettivamente inesistenti, nel periodo dal marzo 2004 al dicembre 2016 per un importo di oltre 154 mila euro, con l’intento di consentire ad una Srl, quale soggetto utilizzatore, di evadere le imposte sui redditi e l’Iva. Secondo l’accusa l’imputato ha aperto la partita Iva senza però mai dare seguito all’esercizio di alcuna impresa, con l’intento fraudolento di ottenere facili guadagni emettendo fatture inesistenti.

La Corte di Cassazione con la sentenza in questione conferma inoltre che, in caso di fatture emesse per operazioni inesistenti, l’elemento soggettivo del reato commesso può essere dimostrato anche attraverso la consapevolezza del soggetto emittente del meccanismo fraudolento finalizzato all’evasione delle imposte. Elemento che non può mai escludersi, in quanto ad essere punita è la falsità ideologica e non quella materiale della fattura. Pertanto, anche laddove la quietanza indichi un ammontare dell’operazione e/o dell’Iva superiore a quello reale, l’emittente è sempre informato dell’importo da corrispondere a titolo d’imposta, in quanto dalla fattura sorge sempre un debito tributario per Iva per l’intero ammontare indicato nella stessa.